Year: 2013
Genre: Death-Doom
Record Label: Peaceville Records
Sounds like: Old-school Death Metal, Autopsy
Reviewed by: Edoardo De Nardi
Sentence: Rotten To The Core!!
Tornati sulle scene ormai quattro anni fa, gli Autopsy sembrano aver scovato da qualche parte l’elisir di eterna giovinezza, tanta è la foga putrescente sprigionata dal loro come-back, con il precedente “Macabre Eternal” prima e con il nuovissimo “The Headless Ritual”poi. La mente contorta ed imprevedibile di Reifert aveva già stupito con le insolite influenze inserite qua e là all’interno di “Macabre Eternal”, che pur possedendo tutti i trademarks tipici della band, aveva saputo aggiungere umori presi in prestito anche da altri generi musicali. Il discorso prosegue senza intoppi con il nuovo album, che riattualizza l’originario death-doom marcio della band con elementi sorprendenti ma sempre tremendamente “Autopsy”. “Slaughter At Beast House” ad esempio, suona come una dichiarazione di guerra: ogni singolo secondo della canzone ripercorre con foga gli esordi della band, che nonostante le moderne tecnologie del settore, continua a preferire un sound naturale, grezzo e dal sapore squisitamente “lo-fi”. La virata funeral-doom di metà canzone, con le sue tipiche melodie sbilenche, il basso minimale ed ossessivo, ed i soffertissimi latrati del drummer americano, da sempre prima voce del gruppo, elevano ulteriormente il livello del brano, iniziando fin dalla prima traccia a lasciar intravedere nuovi, epici sviluppi per il gruppo.
“Mangled Far Below” oltre ai soliti riffs old-school made in Usa, di cui i Nostri sono stati peraltro tra i primi inventori, flirta spudoratamente con il crust ed il punk più psicotico, in un indegno incesto che spunterà anche in altre occasioni nel corso della tracklist (Coffin Crawlers). Non importa quale sia l’origine delle scheggie impazzite che maneggiano e rimodellano secondo i loro canoni: tutto in “The Headless Ritual” viene rivisitato secondo il perverso, personalissimo punto di vista dei suoi efferati esecutori, che trasformano in marcio tutto quello che toccano. “She Is A Funeral” scorre pesante ed opprimente, con un riff plumbeo e stentoreo che davvero non ti aspetti, ma che dopo pochi giri conquista ed ammorba grazie ancora alle vocals disperate, quasi inumane e ad una struttura a suo modo imprevedibile e cervellotica. Si torna a pestare sodo con “When Hammer Meets Bone”, ennesimo impeccabile saggio sul significato della parola rinnovamento misto a tradizione: è effettivamente impossibile anche in questo caso che il pezzo non richiami alla mente i periodi di “Severed Survival” e “Mental Funeral”, eppure non manca, ad esempio nel rallentamento centrale, una sorta di richiamo al minimalismo e alla semplicità di certi correnti moderne del death metal. Di tutt’altro genere è la breve pausa classic-epic di “Thorns and Ashes” che arriva a ricordare persino certi fraseggi maideniani, che però non fanno gridare troppo allo scandalo per la cupezza che comunque gli americani rilasciano nella propria musica. “Arch Cadaver”, dopo un inizio da brividi, si scatena in una tirata di thrash-death davvero notevole, ancora una volta classica ma attuale, perfetta per il delirio sotto palco che certamente porterà con sé.
Per alcuni, particolari aspetti, il nuovo corso intrapreso dagli Autopsy ricorda da vicino le ultime vicende discografiche dei norvegesi Darkhtrone ed i loro, altrettanto inaspettati sviluppi artistici: l’amore quasi viscerale per un concetto non compromesso ed “underground” di musica, il tributo che entrambe le band stanno dimostrando verso le prime correnti dell’heavy metal e, soprattutto gli Autopsy, del classic-doom settantiano, la voglia di non relegare la propria proposta ad una singola e ben delineata etichetta di genere; a differenza del duo black metal però, Reifert e compagni non hanno mai estromesso il loro gene originario dalle nuove releases, e anzi partendo proprio da una chiara ed orgogliosa appartenenza alle loro origini, sono stati in grado di mischiare le carte in tavola, senza però stravolgere le regole del gioco. A darne conferma arriva la conclusiva “Running From The Goathead”, ultima canzone vera e propria di “The Headless Ritual”, prima della omonima, horrorifica outro che ci abbandona lentamente nella palude tossica e malsana in cui gli Autopsy ci hanno calato, ancora una volta. Per fortuna.
Mark: 8/10
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